Rabelais ha quindi ripreso un tema assai familiare al suo pubblico, ricamando attorno a questo nucleo preesistente una lunga serie di episodi gustosissimi, dettati dalla sua inesauribile fantasia.
In effetti, è praticamente impossibile riassumere la trama del libro. Mi limiterò a dire che vi si narrano la vita e le mirabolanti avventure dei due giganti, le loro colossali bevute e mangiate, le guerre da essi combattute e vinte, il loro spirito di giustizia nel governare il proprio regno. Ma accanto a ciò vi è una miriade di episodi di tipo assai diverso: buffe discussioni filosofiche, stravaganti dibattiti su futili problemi, e così via.
C'è per esempio un capitolo tutto occupato da una sfilza di insulti rivolti da un personaggio ad un altro personaggio: una vera e propria litania di insulti, che fa il verso alle litanie della Chiesa.
C'è anche un capitolo in cui vien fatta la parodia di alcune lingue straniere, di cui vengono imitati abilmente i suoni, in un impasto di parole prive di senso.
Insomma: questo è un libro che rompe con tutti gli schemi dei generi letterari, proponendosi come opera unica e irripetibile, in cui tutto appare possibile. E per ottenere tale risultato Rabelais ha attinto senza limitazioni a tutti i possibili serbatoi di parole: dai gerghi di mestiere, dalla lingua colta, dalla lingua popolare.
L'equilibrio è proprio costituito dall'insieme di questi due registri, il colto e il popolare.
Dalla vena popolaresca di Rabelais scaturisce infatti il suo spirito goliardico, carnevalesco, la sua incessante voglia di scherzare, ed anche la sua predilezione per le situazioni oscene e per il linguaggio pesante.
D'altra parte, egli fu anche un uomo di insaziabile curiosità intellettuale e di vastissima cultura, come testimoniano i continui riferimenti dotti..., egli fu, tra l'altro, esperto di cultura classica e di medicina, e tenne anche una cattedra universitaria. Le sue buffonate gli servono spesso, al di là delle facili apparenze, per trasmettere precisi messaggi agli uomini del suo tempo, ossia per assumere delle chiare posizioni su scottanti questioni teologiche e filosofiche. Difatti, benché accolta dal pubblico con grande favore, la sua opera fu immediatamente condannata dalle autorità politiche e religiose, che non ne gradirono lo spirito ribelle.
Se c'è una cosa che risulta sempre estranea ed insopportabile ad un potere dispotico, essa è proprio il riso, il frizzo irriverente..., e Rabelais sembra davvero voler seppellire tutta l'ottusità e la cattiveria umana sotto il peso delle sue fragorose risate (egli era del resto un personaggio già sospetto al regime, in quanto aveva lasciato nel 1527 la vita di convento, che aveva condotto fino ad allora).
Prima dicevo dell'equilibrio di quest'opera. In effetti, il gusto per l'osceno non è altro che il punto estremo dell'esaltazione della vitalità dell'uomo, che deve giungere fino ad includere la sua stessa sfera vegetativa. L'ideale umano proposto da Rabelais è quello di un individuo totalmente libero nello spirito e nel corpo, che raggiunge la saggezza attraverso la più stretta comunanza con la natura. Un individuo, quindi, non frenato dai pregiudizi, e pronto ad intraprendere qualsiasi esperienza lecita, spintovi dalla propria curiosità; mai disposto ad accettare per partito preso un'idea o un fatto, ma pronto piuttosto a formarsi una propria opinione verificando tutto di persona. È, come si vede, un ideale di uomo già profondamente moderno.
Il corrispettivo stilistico di questa libertà, e di questa sfrenata curiosità, è il gusto dell'esagerazione e dell'assurdo, che nel "Gargantua e Pantagruele" celebra davvero il proprio trionfo.
Nel primo (il cap. 32 del libro II) l'autore racconta ciò che ha visto nell'immensa bocca di Pantagruele, in cui dice di aver abitato per circa sei mesi: è un vero e proprio mondo alternativo, per alcuni versi uguale al nostro, per altri decisamente opposto (ad esempio, più si dorme, più si è pagati).
Nel secondo (cap. 3, e parte del 4, dal libro III) viene fatto l'elogio del debitore. Anche qui il mondo viene in qualche modo capovolto: la massima virtù, si direbbe, non sta nel pagare il dovuto, ma nel prendere a prestito il più possibile, di modo che il nostro prossimo sia spinto a desiderarci sempre in buona salute, per poter riavere i soldi imprestati. Addirittura, si arriva a dimostrare che l'universo intero crollerebbe se non fosse sostenuto dalla rete dei debiti che si intrecciano tra i diversi individui. Colui che pronuncia questo appassionato discorso è Panurge, amico fraterno di Pantagruele: uomo squattrinato ma coltissimo, un autentico avventuriero (nel senso buono del termine) che affronta la vita con grande allegria.
Ma è poi così assurda questa prospettiva suggerita da Panurge? In fondo, quello che egli prospetta è una specie di "patto sociale", su cui ogni società umana è fondata. Affinché la convivenza degli uomini sia stabilita su solide basi, occorre che vi siano scambi (sia culturali che materiali) tra i soggetti. L'esaltazione del debito non è altro dunque che una formulazione buffa di un'idea molto saggia e realistica: e cioè che l'uomo non è buono per natura, e dunque che i rapporti tra gli individui devono essere in qualche modo regolati. La società non è altro che un sistema di scambi: senza di ciò vi sarebbe solo lotta tra gli individui.
La prosa di Rabelais è molto densa di citazioni dotte e di battute umoristiche..., bisogna anzi far bene attenzione a distinguere le vere dalle false citazioni. È ricca anche di figure retoriche, come la similitudine e l'iperbole, o l'elencazione (come, ad esempio, "briganti, assassini, avvelenatori, malfattori, malpensatori, malevoli..."). E ci sono, qua e là, delle affermazioni festosamente assurde (ad esempio... "quando... voi erediterete da voi stesso"... cioè mai!).
Tutto l'insieme dà l'impressione di un mondo rigoglioso, gremito di particolari e formicolante di idee.
Un'impressione, insomma, di fertilità continua, in cui tutto può nascere da tutto..., proprio come nella natura, tanto esaltata da Rabelais.
^ * ^ * ^ * ^ * ^ * ^ * ^ * ^ * ^ * ^ * ^ * ^ * ^ * ^ * ^ * ^ * ^ * ^
"Questo libro è un enigma inesplicabile, un mostruoso miscuglio di fine e ingegnosa morale e di bassa corruzione. Dove è brutto va di là dal peggiore: è l'incanto della canaglia; dove è buono, va fino allo squisito e all'eccellente e può essere un cibo dei più delicati." (La Bruyère)