UN PAPA NEMICO DELLE FERROVIE
Fu GREGORIO XVI, che definì il liberalismo "malvagità cinica e scienza spudorata", e che era particolarmente avverso alle strade ferrate, considerandole mezzi per accelerare le rivoluzioni, quindi non volle mai che se ne costruissero negli Stati Pontifici.
Gregorio XVI, al secolo Mauro Cappellari, di Belluno, durò dal 2 febbraio 1831 al 1 giugno 1846.
Darò qualche sintetica indicazione sulle condizioni sociali nelle quali si trovava allora lo Stato Pontificio, segnalando gli avvenimenti che si svolsero in quel periodo ed in modo particolare, ai moti rivoluzionari del 1831, del 1843 e del 1845 (per ampliare la panoramica dell'operato di Gregorio XVI, oltre al volume "I regolamenti penali di papa Gregorio XVI per lo Stato pontificio" - CEDAM, ho consultato dell'insigne storico Domenico de Marco “Il tramonto dello Stato Pontificio - Il papato di Gregorio XVI” – Einaudi, di cui ho largamente tenuto conto).
La popolazione dello Stato Pontificio, che si aggirava sui tre milioni scarsi di abitanti, contava, grosso modo, 1.000.000 di agricoltori, 200 mila proprietari, 250.000 artigiani, 100.000 commercianti, 50.000 ecclesiastici, 100.000 fra professionisti, artisti, militari e studenti. Il resto era composto da domestici, individui dai mestieri numerosi e variabili, mendicanti laici e religiosi, e briganti.
Le classi dominanti erano due: l'alto clero e l’aristocrazia.
Le classi dominanti nella società romana.
L'alto clero, ricchissimo, non solamente possedeva un enorme patrimonio che si faceva ascendere a oltre cento milioni di scudi, ma disponeva anche dei beni e delle entrate dello Stato, di cui esercitava, in modo esclusivo, tutte le funzioni direttive.
In Roma dominava il papa con la sua innumerevole Corte di dignitari, di funzionari, e di servitori.
Poichè ad ogni cambiar di pontefice cambiava anche la maggior parte dei funzionari e dei servitori, costoro non avevano altro pensiero che di far fortuna durante la permanenza del pontefice regnante e la facevano con ogni mezzo.
Fuori di Roma, invece, nelle quattro Legazioni e nelle altre province, esercitavano i più ampi pieni poteri i Cardinali-Legati e gli alti prelati incaricati del governo, dei quali si diceva che erano principi a Roma, e pascìà nelle province.
La corruzione della Corte pontificia era sulle bocche di tutti. Si attribuivano ad ogni prelato ed allo stesso papa una o più amanti, e si parlava dei loro onnipotenti favoriti, come, ad esempio, del barbiere Gaetano Morone, divenuto primo cameriere di Gregorio XVI.
Privilegiati, insindacabili da parte dei laici e investiti di tutte le cariche importanti, erano anche gli ecclesiastici subalterni, preposti all'amministrazione civile e religiosa delle città. Persino i curati potevano penetrare a tutte le ore nelle case dei contadini, per assicurarsi dell'osservanza dei buoni costumi e dei precetti della religione. Avevano spie, ordinavano perquisizioni ed arresti. Naturalmente, dalla religione e dai costumi si scivolava con estrema facilità nella politica.
I proletari e i mendicanti
Là nobiltà si divideva in tre categorie, a seconda della sua origine: nobiltà feudale, nobiltà nepotistica e nobiltà del denaro. Costituiva una casta privilegiata, che quasi sempre sfuggiva alle sanzioni della legge, anche in occasione, di gravi delitti e che traeva i suoi mezzi di sussistenza dalle rendite di grandi proprietà terriere ed urbane.
Gli istituti feudali del fedecommesso e del maggiorasco, diretti alla perpetuazione dei patrimoni familiari erano tuttora in vita; ciò non pertanto, la nobiltà versava in continue difficoltà economiche, a causa del lusso eccessivo e del giuoco che divorava intere sostanze.
Contrariamente a ciò che avevano cominciato a praticare alcuni nobili dell'Alta Italia, l'aristocrazia romana non, pensava minimamente a far sorgere una industria agricola sui vasti suoi territori. I più poltrivano nell'ozio, limitandosi alla vita mondana e ricoprendo qualche carica onorifica alla Corte vaticana.
I cadetti risolvevano il proprio problema economico, brigando qualche redditizio beneficio ecclesiastico.
Il fenomeno che maggiormente colpiva gli stranieri venuti per la prima volta nello Stato Pontificio era la mendicità.
“La Mendicità e la straccioneria, scriveva il francese Briffault, fioriscono a Roma e per tutta l'estensione dello Stato Pontificio:.. I mendicanti... assediano e insozzano tutti gli accessi delle chiese-, dei monumenti, delle passeggiate e dei palazzi”.
All'enorme numero dei mendicanti si aggiungeva quello non meno notevole dei frati questuanti (Queste condizioni e, in generale, tutte quelle esposte in questa pagina, sussistevano ancora quando l’About, il giornalista francese, visitò Roma sotto Pio IX e ne scrisse nel libro “Roma contemporanea”).
Ugualmente penosa era la condizione del proletariato di campagna, dei braccianti, il cui numero cresceva senza posa per il progressivo declassamento degli altri ceti contadini.
“Essi”, scrive il Gismondi, “offrono le loro braccia ai proprietari dei terreni così per eseguire i più faticosi lavori dei piccoli poderi di collina, come per seminare, o mietere nei campi della pianura; ma questi lavori occasionali non danno loro occupazione fuorchè per poche settimane all'anno; pel rimanente del tempo essi son condannati a poltrire nell'ozio e devono vivere di quello che riesce loro di rubacchiare nei campi o di elemosine”.
Quando lavoravano,, i braccianti erano ricompensati con salari di fame. Difficilmente essi potevano mangiare qualcosa più del pane e come abitazione usufruivano di capanne di stoppia o di caverne. La disoccupazione infieriva anche negli artigiani e negli operai, che, per pochi soldi, lavoravano sino a undici ore al giorno. La conseguenza di questo stato di cose era il costante aumento della delinquenza e l'enorme diffusione del brigantaggio. Centro del brigantaggio la Ciociaria e particolarmente la città di Frosinone. Era, per esempio, in strette relazioni coi briganti la famiglia del futuro segretario di Stato di Pio IX, cardinale Antonelli.
Il ceto medio
Nelle città gli impiegati laici, i medici, gli avvocati, vegetavano senza avvenire, perchè era loro interdetto ogni progresso di carriera dalla invadente supremazia del clero e dalla dichiarata ostilità verso ogni forma di cultura.
Nelle campagne i piccoli e i medi proprietari erano in difficoltà per il continuo aumento delle tasse e miseri ancora i mezzadri, i piccoli affittuari e i coloni.
Ed ecco la testimonianza di D.A. Farini.
“Chi può dubitare delle strettezze e delle angustie fra le quali menano i contadini una vita affaticata, penosa e disagiata?.. Conducasi a suo piacimento alte case loro e mi dirà quante volte vi trovi a bollire la pentola. E quando vi bolle, mi dirà se un pezzo d'osso o di lardo rancido non ne formi, se non tutto, almeno l'ingrediente principale.:. Il pane loro è quasi sempre composto di un miscuglio di varie biade onde per il più, il grano è esclusa.. vedrà che a paglia nelle cascine è nelle stalle costituisce il letto migliore”.
Ad ogni, sia pur lieve, disgrazia famigliare o avversità naturale essi dovevano ricorrere agli usurai e ingolfarsi nei debiti. Se non riuscivano a pagarli, perdevano tutto e andavano ad ingrossare il grande esercito dei braccianti.
Vi era tuttavia nelle campagne un ceto che si arricchiva. Esso si era costituito dagli usurai, dagli amministratori delle grandi tenute, dagli arru7olatori di boscaioli, carbonai e operai, chiamati caporali, da alcuni commercianti, dagli appaltatori di lavori pubblici o delle tasse e specialmente dai mercanti di campagna, cioè dagli affittuari dei latifondi appartenenti all’aristocrazia romana, dove essi praticavano la cultura dei cereali o l’allevamento su vaste proporzioni.
Tutti costoro disponevano di denaro e costituivano il nucleo della borghesia capitalista dello Stato Pontificio.
Avidi di prestigio e di potere, invidiosi dei privilegi della nobiltà e del clero, costoro avrebbero voluto moltiplicare coi traffici e con l'industria i propri guadagni, ma la loro attività era fortemente ostacolata dalla arretrata politica economica del governo, che vedeva di cattivo occhio ogni novità anche in campo tecnico, che considerava come un'invenzione del diavolo le ferrovie, l'illuminazione a gas e il telegrafo, che amministrava, senza controllo e senza nemmeno pubblicare un bilancio il pubblico denaro, cercando solo di far denari il più possibile, con tutti i mezzi.
“L’anarchia organizzata, per quanto una cosa simile è possibile, diceva il Mazzini, costituisce la caratteristica del governo del papa”.
Deplorevole infine, era l'amministrazione della giustizia, per l'arretratissima condizione della cultura e di ogni forma di civiltà, per l'oppressione costante di tutte le libertà del cittadino, sotto il più bestiale regime poliziesco posto a servizio di un oscurantismo medioevale.
Gregorio XVI (Mauro Cappellari, di Belluno) seguiva, dopo un breve pontificato di Pio VIII, a Leone XII, papa ciecamente reazionario, al cui confronto i reazionari maggiori apparivano dei liberali; e ne raccolse e ne incrementò l’eredità.
Gregorio XVI e il liberismo
Quali fossero le idee di Gregorio XVI in fatto di libertà e di progresso - mentre in Italia sorgeva una coscienza patriottica e nazionale - è presto detto.
Nel 1832 il Portogallo era agitato dalla guerra civile tra reazionari e liberali. Gregorio XVI non esitò, naturalmente, ad intervenire con un'enciclica (“Sollecitudo ecclsiarum”, cioè “La sollecitudine delle chiese”) dove prendendo le parti dei primi, “ribadiva la tradizionale dottrina della Chiesa sulla soggezione alle autorità stabilite”: i cristiani, cioè, devono “rendere obbedienza civile a chiunque di fatto detiene il principato”.
Così mons. Casitiglioni nella sua “Storia dei papi” (vol. II, pag. 593-4).
“Con energia - egli continua - Gregorio si oppose risolutamente a tutte quelle novità del suo tempo che segnano, dice nell'enciclica “Mirari vos” (15 agosto 1832) il trionfo “di una malvagità cinica, di una scienza, spudorata, di una licenza senza limiti”.
Nella medesima enciclica condanna le libertà di coscienza, dì stampa e di pensiero che, entro limiti più o meno ampi erano sostenute anche da alcuni cattolici, specialmente in Francia”.
Hugues Felicité Robert de Lamennais
Qui alludo al religioso Hugues Felicité Robert Lamennais propugnatore di un cattolicesimo liberale, che nel 1830, con la rivoluzione di luglio, abbandonate le pregiudiziali monarchiche ed abbracciata decisamente la causa repubblicana, aveva fondato il giornale “L’Avenir”, col motto – “Dieu et la Liberté”, sostenendo la separazione fra Chiesa e Stato ed esortando la Chiesa ad allearsi con le forze liberali.
Alla reazionaria sconfessione del papa il Lamennais rispose con l'opuscolo “Parole di un credente”, che ebbe vastissima eco fra i cattolici e che Gregorio XVI fulminò con una nuova condanna.
Allora, fra il “cristianesimo del papato” e il “cristianesimo della razza umana” Lamennais scelse quest’ultimo, abbandonando la Chiesa (Gramsci – “Risorgimento”, Einaudidi, pag. 183), sottolinea la necessità di studiare il Lamennais per l’influsso che le sue idee ebbero su alcune correnti culturali del Risorgimento, specialmente per orientare una parte del clero verso le idee liberali e anche come elemento ideologico dei movimenti democratico-sociali prima del ’48)
Le persecuzioni politiche
Gregorio XVI era papa all'incirca da tre mesi quando, nel febbraio 1831, Bologna si ribellò al governo pontificio, i moti si estesero all’Emilia alla Romagna alle Marche e all'Umbria e il potere temporale fu dichiarato decaduto dai delegati delle Province Unite d'Italia convenuti a Bologna. Contro l'esercito rivoluzionario che si avvicinava a Roma, il Segretario di Stato cardinale Bernetti assoldò una masnada di delinquenti reclutati da un suo protetto, l'ex sbirro Palanti.
Come ho detto a suo tempo, solo la cattiva organizzazione e direzione del moto rivoluzionario ne causò il fallimento allorchè l'Austria intervenne: e quando il papa riebbe le sue terre le più feroci vendette furono esercitate contro i patrioti.
Da allora la sbirraglia legata alle sagrestie diventò onnipotente: e si scatenò il terrore.
Il papa faceva, spesso e volentieri, il bel gesto di commutare nell'ergastolo condanne a morte appioppate ad innocenti.
Quando, ai principi del 1832, le Romagne tentarono una riscossa, il governo pontificio ordinò saccheggi e massacri a Ravenna e Forlì. Si annunciavano, intanto, riforme irrisorie.
Politicamente Gregorio valeva zero.
Perciò il cardinale Bernetti (che discendeva da uno sbirro e che riuscì a trasmettere ai discendenti della sua famiglia il titolo di conte), dopo essersi già rivelato l'anima nera della reazione sotto Leone XII, fu il papa di fatto. Col suo strapotere assoluto e dispotico, con i suoi favoritismi verso il Palanti (che diventò arbitro della polizia) e simili canaglie, con una politica economica e fiscale disastrosa, aggravò smisuratamente la rovina dello Stato. Egli creò nelle Romane “i centurioni”, corpo di volontari (delinquenti comuni) con l’incarico di sorvegliare i liberali. Nessun domicilio era sacro a costoro: essi entravano da per tutto, anche di note, arrestavano per semplice sospetto, taglieggiavano la popolazione.
Il cardinale Lambruschini, che gli seguì, pareva animato da intenzioni più oneste, ma finì con l’introdursi presso di lui l’abate Giacomo Antonelli; colui che sarà, sotto Pio JX, il cardinale Antonelli e le cose continuarono come prima.
Il fermento nelle Romane era incontenibile: e quando, nel 1845, scoppiarono i moti di Rimini, le carceri - dopo la sanguinosa repressione - furono zeppe di patrioti.
Morì il 1 giugno 1835 a circa ottant'un anni, dopo aver pontificato per quindici anni e quattro mesi.
Il giudizio della storia
“In poco più di tre milioni di abitanti sopra i quali voi regnate non meno di quarantamila sono ammoniti, vale a dire esclusi da qualsivoglia ufficio onorevole o lucrativo sia di governo, sia di municipio; quattromila sono esuli, proscritti o rinchiusi nelle prigioni e nelle fortezze, perché rei di avere amato la patria; il sangue versato; or misurate il sangue versato per voler vostro a Cesena, a Forlì, a Rimini, a Ravenna, a Bologna, a Velletri, ad Ancona, dappertutto ove sventola la bandiera dalle chiavi d’oro; misurate le lagrime delle vedove, degli orfani, dei genitori, ai ammazzaste i figliuoli per aver creduto che Dio non creasse i tiranni; e poi dite se voi oserete sostenere gli sguardi del vostro giudice eterno” (Giuseppe La Farina - Storia d'Italia).
______________________________________________________________________________